Quarant’anni di ricerca nel segno dell’ironia
Intervista con Anna Esposito a cura di Maria Chiara Salmeri
D. Il tuo percorso è molto vario, hai affrontato diverse esperienze artistiche arrivando ogni volta a delle soluzioni molto originali. Credi che il tuo lavoro sia stato influenzato da qualche movimento artistico dal quale traevi ispirazione?
R. Non si può parlare di influenza diretta da parte di un modello in particolare, an- che se soprattutto all’inizio della mia carriera sia la critica che il pubblico cercavano di fare dei confronti, di trovare delle similitudini che permettessero loro di inquadra- re le mie opere per esempio accostandomi a Duchamp, a Magritte. Io non ne fui così convinta, non riuscivo a ravvisare questo ascendente sul mio fare artistico. Più che altro mi sembrava di vivere l’influenza di un clima, di un’atmosfera generale, e tra singoli nomi potevano emergere anche personalità molto diverse come Kandinsky e Burri; più che una vicinanza a una singola corrente o a un singolo pensiero, mi piaceva curiosare ecletticamente e senza pregiudizi.
D. Le tue opere sono caratterizzate da un attacco diretto al sistema socio-culturale. Sin dal- l’inizio usi lo stesso linguaggio pubblicitario per ribaltare il piano lessicale e ironizzare sul concetto stesso di pubblicità, sul concetto di ‘invadenza’ e di ‘ripetizione’. Tutto ciò avviene appena dopo che la Pop americana, il movimento che maggiormente si confronta con il concetto di pubblicità, si affaccia anche sul panorama italiano. Quanto ha influito sul tuo lavoro questo fenomeno di carattere internazionale?
R. In quegli anni c’era un guazzabuglio di messaggi da cui amavo estrapolare quello che mi interessava maggiormente e tralasciare tutto il resto; così per esempio della Pop non ho mai amato Warhol ma semmai Rauschenberg, probabilmente perché lo sentivo molto materico e dunque più vicino al mio lavoro. E poi più che l’arte americana mi affascinava il lavoro di Mimmo Rotella e il suo modo di usare la carta dei manifesti; ma mentre lui aveva un approccio più astratto, io cercavo di affrontare il mondo dei manifesti, con la loro presenza invadente e il loro imperativo al consumo, con un atteggiamento più diretto, più consono al mio modo di pensare. Era proprio questo senso di intrusione e di persuasione consumistica che mi dava fastidio e sul quale volevo intervenire.
D. Com’è nato il tuo incontro con l’arte?
R. Tutto nacque seguendo un corso di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma che purtroppo non completai perché nel frattempo vinsi un concorso per l’insegnamento elementare e quindi mi misi a lavorare; sentivo però che il corso di scultura aveva acceso o riacceso in me qualcosa che era lì in attesa di essere svegliato. Fin da quando ero bambina, se mia madre lasciava inavvertitamente un paio di forbici in giro, io ne approfittavo per tagliuzzare e sistemare stoffe, carte e tutto quello che trovavo. A un certo punto della mia carriera è come se questa passione fosse emersa nuovamente. Anche sotto l’aspetto della tecnica, tutto il mio lavoro è nato a partire dalla mia ricerca formale e contenutistica: scoprire come si può arrivare a ottenere un effetto con tutti i mezzi possibili. Quando creo infatti non escludo nessuna possibilità, basta che si adatti allo scopo principale, ossia trasmettere quello che ho da dire. Certo fare scultura era tutta un’altra cosa, e ho persino vinto un concorso nazionale, ma lo considero un avvio o un passaggio repentino da cui poi è nato tutto quello che porto avanti ancora oggi.
D. Da questo momento, quali sono stati i primi passi mossi all’interno del sistema del- l’arte?
R. Lavoravo come insegnate e contemporaneamente mi piaceva molto frequentare le gallerie. Nel frattempo avevo fatto degli incontri fortunati che non solo mi aiutarono a capire che in me c’era questa capacità artistica ma mi incitarono a proseguire; tra tutti Marcello Venturoli fu il primo a darmi l’input. La prima mostra personale che ho fatto è stata alla Galleria Due Mondi, che allora era una galleria di punta, e in quel- l’occasione con grande sorpresa mi resi conto che era stata un successo, molti giornali ne parlarono. Il consenso mi fece proseguire ancora più motivata , ma non tanto per fare delle mostre quanto per approfondire la mia ricerca. Non mi interessava buttar- mi a capofitto e far entrare il mio lavoro in un circuito commerciale, al contrario volevo fare solo quello che mi piaceva e basta.
Una donna per me importantissima è stata Mirella Bentivoglio che mi ha seguito per un lungo periodo. Più tardi le nostre strade si sono per così dire divise: lei era più interessata al discorso sulla poesia visiva, corrente alla quale a volte potevo essere associata soprattutto se usavo un certo materiale, ma più di passaggio che come mèta.
Poi c’è stato l’incontro con Luigi Carluccio che ha favorito molto il mio lavoro, dalle mostre alle recensioni sui giornali. E per concludere una figura in assoluto determinante è stata Palma Bucarelli, non solo per un coinvolgimento professionale ma per quel rapporto intenso, fatto di scambi di pensieri e opinioni, che ci ha legato per molti anni in una profonda amicizia.
D. Com’è avvenuto il passaggio dalla pittura, contraddistinta dalle Abrasioni, ai primi Manifesti pubblicitari e poi ai collages?
R. La ragione principale per la quale lasciai la scultura era l’alto costo di produzione e col mio stipendio da insegnante non avevo i mezzi; allora ho cominciato a di- pingere rappresentando il muro, ma non i muri della città bensì quelli vecchi e sgretolati dell’Appia antica, dove abitavo. Dipingevo sulla tela tutto ciò che era possibile trovare su questi muri: brandelli di manifesti, abrasioni create dal tempo. Tutte queste scorie non avevano il significato consumistico che poi gli avrei dato in seguito ma mi attraevano da un punto di vista estetico. Da qui il passaggio ai veri manifesti fu di- retto e cominciai a cercarli per rielaborarli secondo il mio spirito. Ero una contestatrice ‘mite’ ed esprimevo il mio dissenso con mezzi personali, opponendomi al manifesto col manifesto stesso, creando manifesti che si contraddicevano. Proseguendo su questa strada sono arrivata al concetto di collage.
D. Nelle tue opere, sin dagli esordi, si assiste all’esigenza di invadere lo spazio; sembra qua- si che i tuoi collages vogliano uscire fuori dalla bidimensionalità per potersi espandere trami- te un’esondazione della materia oppure tramite degli effetti ottici. C’è un interesse da parte tua a concepire l’opera quasi come un’istallazione ante litteram, una creazione totale che si completa in se stessa e nella curiosità di chi la guarda?
R. La tridimensionalità è in qualche modo riconducibile al mio esordio come scultrice. Franco Solmi, per una mostra che feci nel 1976 dal titolo ArtTheatre, paragonò le mie opere a dei palcoscenici, a dei veri e propri teatri in virtù di quella tridimensionalità che per me è un’esigenza… e io condivido questo paragone perché anche quando la superficie è piatta per me è importante che ci sia sempre quel senso di tridimensionalità. Non mi pongo però il problema dell’interazione con gli altri, quello che faccio è di proporre una rappresentazione, teatrale e scenografica… l’interazione viene per conto suo e non sempre, ma se c’è va bene!
D. C’è un elemento che si mantiene costante in tutto il tuo percorso: la passione per la car- ta, presente in molteplici forme e ogni volta oggetto di nuove interpretazioni. Cosa rappresenta per te questo materiale?
R. La carta è una materia importante. Prima di tutto è un mezzo che all’apparenza sembra fragile perché si usura e si strappa facilmente ma che al contrario ha anche una sua consistenza; e io volevo vincere questa sua apparente scarsa resistenza e di- mostrare che la si può lavorare in modo tale da farla diventare una scultura. Quello che non ho potuto fare con la creta e il bronzo, la materia che più mi appassionava, sono riuscita a farlo con la carta. Naturalmente è stata una ricerca lunga e con molte impreviste reazioni della materia stessa, se pensi che molte delle mie prime opere in carta sono andate distrutte anche a causa del tipo di colla che usavo negli anni ‘70.
D. Il tuo lavoro non parte direttamente dalla realtà ma da una riproduzione di essa, un’immagine pre-esistente già elaborata e dunque spesso e in parte distorta; immagini quotidiane che grazie al tuo intervento diventano altamente evocative. Si può dire che le tue idee si sviluppino grazie ai suggerimenti che riesci a catturare a partire da queste visioni?
R. Nel mio lavoro si può parlare di due processi diversi: il primo avviene quando ho un’idea e cerco il materiale per realizzarla; nel secondo è l’immagine che trovo casualmente, quella offertami dai rotocalchi per esempio, a suggerirmi un’idea. In entrambi i casi è evidente che ho un forte bisogno di immagini e quando non mi si presentano da sole me le procuro, anche andando in giro a fotografare la realtà. Non mi sento affatto una fotografa ma ho sempre avuto la necessità di “materia prima” anzi “seconda” e mi aggiravo curiosa in cerca di ciò che mi serviva; così ho fatto ad esempio con i depositi di carta da macero, molto tempo prima che si cominciasse a parla- re di riciclo. Dall’altra parte mi piace molto scoprire quale suggerimento si nasconde dietro l’immagine già fatta perché si corre un rischio maggiore nel rielaborarla: è nel
momento in cui ne ho davanti una tutta patinata e perfetta che scatta la mia vena ironica e la voglia di capovolgerne il senso.
D. Ritieni che l’ironia sia la chiave più efficace e diretta per mettere a nudo la realtà, anche quella più cruda?
R. In linea di massima sì ma non sempre. A volte bisogna concedersi delle sorte di “pause dell’anima” in cui uno si deve rilassare e fare qualcosa per lo spirito… altre volte si cede alla rabbia e all’ira. Per esempio nelle opere che riguardano gli animali il linguaggio che uso è più forte, perché c’è chi maltratta o fa uso degli animali senza misura, solo per guadagno e consumo; questo non significa che la mia critica ha qualcosa a che fare con l’essere vegetariana ma che bisognerebbe avere più rispetto per certe cose. Laddove l’aggressione ti porta a ricevere altrettanta aggressione, l’ironia è un’arma più sottile, è un avvertimento che ti obbliga a pensare…
D. Mettersi di fronte alla tua opera significa prima di tutto coglierne l’aspetto più immediato, cioè quello comico. Bergson vedeva il comico come un ‘castigo sociale’ tramite il quale migliorare una serie di atteggiamenti della società che si contrappongono allo ‘slancio vitale’, cioè al concetto stesso di vita. Secondo Bergson noi ridiamo di tutti quei atteggiamenti meccanici e monotoni che attenuano la fluidità e la spontaneità e che rendono quindi l’individuo schiavo dell’esistenza. Si può dire che anche nel tuo lavoro si assista ad una forma di ‘rimprovero’ tramite un sorriso che redime la società dai suoi stessi sbagli?
R. Certo, perché pensando all’uomo in generale e alla società, me compresa, provo un senso di compassione per questa storia che ci è data da vivere. Il mio non è mai un giudizio definitivo ma è come se io ambissi a un riscatto dell’uomo, ad una realtà un po’ più umana perché la società contemporanea ci sta disumanizzando e quindi mettere il dito sulla piaga anche con una risata ti porta alla riflessione, senza cattiveria…
D. Un secondo momento, nella fruizione della tua opera, è caratterizzato da una sorta di ritrosia perché si assiste a quello che viene definito ‘sentimento del contrario’, un momento di riflessione che porta a identificarsi e a compatire il soggetto di cui ci si prende gioco. Si arriva così a parlare di vero e proprio umorismo, il contrasto tra vita e forma, tra il fascino del- l’attrazione e la resistenza verso una verità scomoda…
R. È questo il mio scopo principale, il senso finale del mio lavoro. Negli anni in cui ho insegnato avevo bisogno di porre una disciplina ma non potevo imporla con violenza, semmai con un atteggiamento volto a interessare l’alunno in maniera che avesse più fiducia in me e nel mio insegnamento. Ed è con questo spirito che io lavoro… inoltre adotto una strategia che definisco ‘civettuola’ che mi porta ad richiamare nel miglior modo possibile lo sguardo degli altri. Se io voglio esprimere un giudizio negativo su un’azione dell’uomo, prima di tutto cerco di attirare l’attenzione tramite un espediente superficiale. Per esempio gli ‘Sguardi Ecologici’ con tutto il loro colore ti invitano ma quando poi ti avvicini scopri che è tutto ciarpame, materiale di rifiuto.
D. Dalla centralità della figura femminile all’elaborazione di una tecnica che mette in primo piano la manualità: tagli, cuci, lavori la carta e la stoffa, con grande dovizia aggiungi elementi funzionali a formare architetture perfette. In questa complessa attenzione al dettaglio c’è la semplicità di una gestualità molto femminile messa a punto non da un senso di rivendicazione ma semplicemente dall’esigenza di un’espressione interiore?
R. Penso che nel mio lavoro convergano insieme forza virile e manualità femminile. Cucire, tagliare sono cose che le donne della mia generazione hanno imparato a casa. E questa manualità ti rende padrona di dominare la materia, qualsiasi essa sia, ed è proprio legata alla sfera femminile: l’uomo la adopera in un altro modo mentre noi abbiamo altre sfumature, delle finezze direi. Questa idea relativa alla gestualità femminile ha sempre accompagnato il mio percorso ed emerse proprio durante un inter- vista con Maurizio Fagiolo nel 1976 in occasione di una mostra realizzata a Palazzo dei Diamanti a Ferrara.
Io provo piacere a trovare nuove tecniche perché quando tu decidi di fare una cosa devi anche riflettere su come puoi realizzarla e come puoi interagire con questi materiali. Per quanto riguarda la centralità della figura femminile c’è un messaggio di fondo legato al fatto che mi ferisce molto vedere che il corpo della donna venga strumentalizzato così tanto. L’uomo è meno nell’occhio del ciclone mentre la donna diventa oggetto di mercificazione ed è sempre messa in prima pagina, anche per reclamizzare una colla per il legno! A me questa cosa mi incuriosisce abbastanza…
D. Nel tuo lungo percorso artistico hai affrontato tematiche molto forti come la guerra e l’impatto ambientale, due cose che portano alla decadenza del nostro pianeta. Dagli anni ‘70 a oggi, se e com’è cambiato il tuo pensiero rispetto a questi argomenti attualissimi?
R. Io sono una figlia della guerra quindi ho vissuto sulla mia pelle questa tragedia. Non era solo paura quella che provavamo noi piccoli ma il dolore per le perdite umane e la rinuncia ad una vita normale. Oggi non è che sia cambiato molto perché la guerra non smette mai di causare morte, perdita dei tesori, la distruzione dei capolavori dell’uomo; magari ci sono delle armi più sofisticate ma è sempre tutto uguale e per questo il mio atteggiamento non è mai mutato. Anche l’impatto ambientale entra a far parte di quella che è la decadenza dell’umanità e io che non sono più giovanissima noto la differenza che c’è rispetto a quando ero bambina, che uscivi e andavi nel parco pubblico e vedevi le farfalle, sentivi cantare i grilli… Oggi c’è troppo inquinamento, sono cresciute le allergie, le forme asmatiche; l’80% della popolazione è mala- ta di tiroide, e questo è dovuto solo all’inquinamento! L’odio per la guerra è sempre costante, ma la preoccupazione per il peggioramento della società e dell’inquinamento è cresciuta oltre modo, quasi a diventare paura. La mancanza di una coscienza ci porta a consumare sempre di più e il non riuscire a fare a meno di niente è un brutto modo di vivere! Tutto questo fa proprio parte del mio lavoro, da sempre.